“Faccio questa strada due volte al giorno, dal campo al porto e dal porto al campo”. S. è un sudanese di 16 anni che abita in quella che viene chiamata la Jungle di Calais, insieme a Idomeni, il più grande campo migranti d’Europa situato a nord-est della piccola città portuale che collega la Francia e l’Inghilterra. Il campo ospita ad oggi circa 5000 persone, la maggior parte ragazzi tra i 15 e i 25 anni provenienti da Afghanistan, Kurdistan, Eritrea, Pakistan, Iraq, Sudan, Egitto, e altri Paesi dell’Africa, giunti lì tutti con lo stesso obiettivo: raggiungere il Regno Unito per ricongiungersi a qualche familiare o semplicemente costruirsi un’esistenza migliore in un Paese di cui conoscono la lingua. Ma le politiche di David Cameron in fatto di immigrazione sono abbastanza eloquenti: paghiamo piuttosto 22 milioni di euro a Parigi per rafforzare i controlli a Calais, ma i migranti ve li tenete al di là della Manica.
I quattro chilometri che collegano il porto al campo, che percorriamo in compagnia di S. e di alcuni suoi amici, sono gli stessi che ogni giorno decine di uomini e ragazzi, intrappolati in questo lembo di terra francese, percorrono nella speranza di riuscire a saltare su uno dei tanti tir diretti in Inghilterra. Jumpers li chiamano. S. e i suoi amici stanno ritornando al campo dopo l’ennesimo tentativo fallito. «Qualche tempo fa riuscire a passare era più facile, c’erano meno controlli, adesso è tutto militarizzato» ci dice Simon, attivista No Borders e insegnante di inglese ai migranti ritornato per qualche giorno a Calais. Facendo un giro in macchina lungo la strada che porta dal centro città alla Jungle non si può non notare la presenza di camionette e militari lungo tutto il perimetro di quella che inizialmente pensavamo essere un’area militare, rivelatasi poi il porto di Calais. Doppia recinzione, telecamere, militari ad ogni angolo e filo spinato. Ciò nonostante gli abitanti della Jungle resistono e ogni giorno per alcuni di loro potrebbe essere quello buono.
Ma la vita di attesa nella Jungle non è facile, soprattutto dopo la distruzione avvenuta lo scorso febbraio ad opera delle forze dell’ordine della parte sud del campo, quella più popolata. L’intenzione del Governo francese è quella di smantellare l’intera area. Nel frattempo le 3000 persone allontanate con la forza si sono spostate 100 metri più a nord, restringendo ancor di più i pochi spazi a disposizione. Altri – in pochi ci dicono alcuni volontari – accettano di salire sugli autobus, che partono ogni giorno da Calais, per essere trasferiti nei Centri di Accoglienza e Orientamento (CAO), presenti in tutta la Francia.
I. un uomo indiano arrivato sei mesi fa a Calais nella speranza di ricongiungersi alla figlia che vive nel Regno Unito, ci racconta dello smantellamento: «ritornando a “casa” ho trovato i bulldozer intenti a demolire la mia abitazione. Senza preavviso, non mi hanno dato neanche il tempo di raccogliere le mie cose». I. è adesso bloccato nel campo a causa di una ferita alla gamba procuratosi durante l’ultimo tentativo di fuga, saltando da un tir per sfuggire ai controlli della polizia.
Storie come quelle di I. e S. la Jungle è piena, ma non tutti sono ben disposti a raccontarle. Un senso di diffidenza negli sguardi che incrociamo si mescola al senso di accoglienza che si riserva ad un turista. E la sensazione è proprio quella di essere un turista a disagio. Dopo qualche ora passata a girovagare per le vie del campo, nonostante le condizioni estremamente proibitive, sopraggiunge però un senso di normalità. Tutti ti salutano, c’è chi ti invita a mangiare nella sua tenda, chi ad entrare nel suo “negozio”, chi ti offre un bicchiere di zuccheratissimo tè. La Jungle è davvero un lieu de vie come recitano le scritte sui teli di quasi tutte le baracche.
Il viale principale della parte di campo risparmiata dai bulldozer la si potrebbe immaginare come la via commerciale più importante di una città. Le baracche più grandi sono adibite a ristoranti, si va dalla cucina afghana a quella indiana, con all’interno grandi tappeti su cui ci si siede scalzi. Altre baracche più piccole fungono da bar, caffè, shop di vario genere, barbieri e persino librerie. L’unica differenza è che sulle vetrine di negozi e ristoranti al posto di prezzi e menù si trovano messaggi di libertà e speranza.
Nel nostro giro ci accompagna Maya, membro attivo dell’associazione locale di volontariato L’Auberge des Migrants che si occupa della distribuzione di vestiti e generi alimentari.
Nel campo Maya conosce tutti, viene fermata di continuo da persone che la salutano o che hanno qualcosa da chiederle. È una persona che infonde serenità ma anche grande determinazione, con due grandi occhi azzurri e un telefono in mano che squilla di continuo. Ci porta su una collinetta di sabbia da cui è possibile vedere l’estensione del campo. Davanti i nostri occhi si apre una distesa di tende e baracche quasi galleggianti su una melma di fango e rifiuti. All’orizzonte la recinzione di filo spinato. Alla nostra destra svettano invece decine di container di un bianco accecante accatastati l’uno sull’altro. Si tratta del centro accoglienza costruito dal governo francese, costato 18 milioni di euro. «Dentro sono anche riscaldati» ironizza Maya. Quest’area interamente recintata, costruita nel mezzo della Jungle, è a tutti gli effetti una prigione. L’accesso è consentito ai migranti solo tramite un meccanismo di riconoscimento della misura del palmo della mano. I volontari non possono entrare. Non c’è nient’altro all’interno che container bianchi da 12 letti ciascuno per un totale di 1500 posti. Sono pochi quelli che hanno deciso di usufruirne, ogni forma di socializzazione e vita comunitaria lì dentro è praticamente inesistente.
A pochi metri dai container si scorge un altro “quartiere”, quello delle famiglie che vivono dentro i caravan. È qui che si concentra la parte femminile della popolazione della Jungle. Le donne rappresentano solo il 5 %. 500 sono invece i minori di cui 200 non accompagnati, perlopiù ragazzini tra i 14 e i 17 anni, ma anche qualche bambino di 6. Tra i minori che si contano nella Jungle c’è anche chi ha visto la luce nel campo stesso.
Alcuni volontari, dopo la distruzione della parte sud, hanno riproposto uno spazio dedicato a donne e bambini nel lato nord: un autobus vintage a due piani che il sabato diventa il centro di bellezza del campo. “Il beauty day”, come lo chiamano i volontari, è un momento che è stato fortemente voluto dalle donne della Jungle in cui per qualche ora ci si dedica alla cura del corpo con massaggi e manicure.
Scopriamo però che l’uso di alcuni spazi del campo non è sempre così libero e spontaneo. Un volontario, che preferisce non essere citato, ci racconta di come le capanne usate per la vendita di prodotti o alimenti, i ristoranti, ed altri spazi commerciali vengano gestiti da alcune etnie che ne detengono il controllo. Come confermano anche altri abitanti del campo, sarebbero i pashtun a farsi pagare per la concessione di questi spazi-capanne.
Durante il weekend il campo si popola di volontari, sono molte le associazioni e organizzazioni locali e internazionali che portano aiuti ai rifugiati. Oltre la già citata Auberge des Migrants, operano nel campo Help Refugees, Care4Calais, Medici Senza Frontiere, Jersey Calais Refugee Aid Group (JCRAG), Salam, La Vie Active e tante altre. La Vie Active, in particolare, gestisce il centro di accoglienza diurno Jules Ferry, adiacente il campo e si occupa, tra le altre cose, della distribuzione dei generi di prima necessità e del servizio docce. Lascia però molto esterrefatti scoprire, dopo una semplice ricerca su internet, che Jules Ferry fu un convintissimo propulsore della politica colonialista e imperialista francese in Africa del IXX secolo.
Dentro il campo è presente anche un centro legale gestito da avvocati e giuristi che offrono il loro supporto tecnico per dare informazioni adeguate riguardo la richiesta dei documenti. Carlos, un avvocato che si occupa di assistenza legale per i minori, comunica ad un ragazzino di circa 13 anni che è riuscito ad ottenere per lui le carte che gli permetteranno di entrare legalmente nel Regno Unito. Un evento normale che ha tutto il sapore dell’eccezionalità visto che ci troviamo nella Jungle di Calais. Sembra infatti che episodi come questo non siano molto frequenti, persino per i minori non accompagnati risulta molto difficile riuscire ad ottenere un visto per l’Inghilterra.
«Non sappiamo quando, se tra due mesi o meno, ma il Governo ci ha fatto capire che la Jungle verrà distrutta in toto, probabilmente senza preavviso» sono le ultime parole con cui ci saluta Maya. E con questa incertezza più di 5000 persone continuano a sopravvivere in attesa che l’Europa risolva non la crisi umanitaria ma la sua crisi d’umanità.
Denise Battaglia